Che fastidio la nonviolenza
Non è un refuso, la nonviolenza scrive come una parola tutta attaccata e richiede tempo. È così che ci si fanno le rivoluzioni. Ne abbiamo parlato con Roberta Covelli.
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Quando qualcuno protesta, c’è sempre chi arriva a spiegargli come dovrebbe farlo. E succede ancora di più quando quella protesta è grande, visibile, capace di ispirare. Non parlo delle chiacchiere da bar o dei commenti sui social — che pure, in massa, contano — ma di chi commenta da posizioni di visibilità: chi ha una trasmissione, un giornale, un seggio.
Quando le manifestazioni toccano nervi scoperti — quando mostrano che cambiare è possibile — allora le reazioni si fanno più violente. O più ridicole. Soprattutto se la protesta è nonviolenta.
Abbiamo scelto di parlarne con Roberta Covelli, nell’autunno del 2025, dopo la prima ondata della flottiglia verso Gaza.
Parlare di nonviolenza significa non lasciarsi trascinare nelle polemiche del momento. La nonviolenza è un metodo storico, “antica come le montagne”, scriveva Gandhi, perché verità e nonviolenza lo sono. Più importanti di un tweet, di un meme, di una dichiarazione politica.
La cronaca ci dà lo spunto. Di fronte allo sciopero generale del 3 ottobre, dopo il sequestro degli attivisti della Global South Flotilla da parte di Israele, Giorgia Meloni ha detto: «Weekend lungo e rivoluzione non stanno insieme».
E invece sì. Perché la nonviolenza vive di tempo lungo. È pazienza, costruzione, perseveranza. È un processo, non un fulmine. È una rivoluzione aperta, come la chiamava Aldo Capitini: lenta, ma radicale.
Chi la sceglie sa che incontrerà sfottò, rabbia, ridicolo. Ma la nonviolenza non è arrendevolezza. Non è dire “per favore”. È dire la verità. Riconoscere la violenza nei rapporti, nelle istituzioni, nei privilegi. Opporsi, anche disturbando la routine, la coscienza, lo status quo.
E quando lo fai, ti dicono che esageri. Ti paragonano a chi opprimi, o ti accusano di provocare le conseguenze che in realtà già subisci. Parlano di “devastazione” per un cancello spaccato, mentre a Gaza piovono bombe.
Non è una novità. Negli anni ’60 i cappellani militari definirono “vigliacchi” gli obiettori di coscienza: ventenni che scelsero il carcere invece del servizio militare. Oggi si giudicano “irresponsabili” gli attivisti che rischiano la vita in mare per portare aiuto. O “fannulloni” quelli che scioperano, rinunciando alla paga per coerenza etica.
La storia della nonviolenza è piena di queste accuse. “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, e alla fine vinci”, diceva Gandhi. Ma la vittoria, nella nonviolenza, è diversa: è nel percorso, nel contagio etico, nella coerenza fra mezzi e fini.
Non si può raggiungere la giustizia con mezzi disonesti. Non si può ottenere la pace con la guerra.
La nonviolenza ci ricorda che abbiamo potere solo sulle nostre scelte, non sui risultati. E che questa consapevolezza — l’umiltà di sapere che non controlliamo il mondo — è il vero potere.
Per questo la nonviolenza spaventa. Perché è un potere libero. E perché chi la pratica richiama tutte e tutti alla responsabilità.
Anche questo spiega il fastidio che suscita: oggi come ai tempi di Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela. Tutti santificati dopo la morte, ma osteggiati da vivi.
Chi protesta senza violenza dimostra che cambiare è possibile. E chi lo dimostra obbliga chi guarda a scegliere: continuare a delegare, o agire.
Nel 2013, a Boulder, in Colorado, la professoressa Erica Chenoweth ha presentato la regola del 3,5%: nessun governo può resistere a un movimento nonviolento che coinvolge almeno il 3,5% della popolazione. A quel punto, o accoglie le richieste o reagisce con violenza.
Forse è anche per questo che la nonviolenza fa paura.
“Nonviolenza” si scrive tutto attaccato, non è un refuso.
E se vuoi capire perché, puoi leggere la serie di Roberta Covelli su Slow News Uno come noi. Militare la nonviolenza.
Come tutto quello che produciamo, è gratuita. La puoi leggere oggi, e anche tra un anno.
Perché è una storia che non scade.


